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Presentazione

La vicenda politica e amministrativa per la costruzione del nuovo teatro comunale di Cesena ha inizio con la  lettera spedita al gonfaloniere nel  maggio 1822, in cui si  fa esplicito riferimento all’intenzione  espressa dalla comunità cesenate di acquisire il teatro Spada, nel palazzo Alidosi, e di costruire un nuovo grande edificio teatrale in muratura.  Ma l’atto di compravendita fra il marchese Francesco Spada di Bologna e il municipio di Cesena avviene molto più avanti nel tempo, dopo una lunga e tormentata trattativa.
La scelta del palazzo Spada quale sede del nuovo teatro comunale appare fin dall’inizio come la più congrua e naturale rispetto alle aspettative della cittadinanza.
La commissione teatrale è alla ricerca di un architetto esperto e conosciuto, in grado di garantire un risultato di notevole valore estetico e di buon livello funzionale.
Una volta individuato il luogo piu’ conveniente per questa importante opera di edilizia pubblica, l’incarico formale a Vincenzo Ghinelli viene deliberato dal consiglio comunale nella seduta del 5 novembre 1841. Ma nel frattempo la deputazione teatrale ha modo di definire con precisione i caratteri del nuovo edificio: “una curva di ventitré palchi in giro larghi all’imboccatura m. l,70 circa, ed a quattro ordini, l’ultimo dei quali aperto nel centro ad uso di lubione”.
Il Ghinelli prende le distanze dall’ipotesi, caldeggiata dalla deputazione teatrale, di una sala a quattro ordini e opta decisamente per la soluzione a cinque ordini comprendente il loggione, e su questi presupposti mette mano alla redazione del progetto che viene consegnato qualche mese dopo, nell’aprile 1842.
L’accoglienza è subito entusiastica. La deputazione stessa, ormai convinta delle ragioni dell’architetto, commenta molto favorevolmente la nuova proposta.
Fin dal primo approccio la macchina teatrale proposta dal Ghinelli si dimostra in grado di soddisfare pienamente i principi fondamentali della solidità, dell’armonia e della bellezza in accordo con le necessarie esigenze di razionalizzazione e di contenimento della spesa. La cavea e ripartita in quattro ordini di palchi, con l’aggiunta di un quinto ordine interamente destinato a loggione. L’equilibrio formale e funzionale dell’organismo si rileva, in particolare, nella disposizione planimetrica: la platea, nella ormai classica forma semicircolare, e preceduta da un ampio atrio aperto sulla loggia ed e seguita da un palcoscenico di proporzioni veramente rilevanti; ognuna di queste parti ha la dimensione di circa un terzo rispetto alla lunghezza complessiva dell’edificio. La razionalità delle soluzioni tecniche adottate si evidenzia, inoltre, nel sistema dei nodi di distribuzione verticale: due grandi scaloni danno accesso diretto dall’atrio agli ordini superiori: a questi vanno aggiunti i quattro corpi scala di servizio e di sicurezza disposti, sempre in simmetria, agli angoli della cavea.
Nella zona soprastante all’atrio è situato il casino del teatro (l’attuale ridotto, oggi occupato da uffici comunali) comprendente un’antisala, sei ambienti secondari e un salone dotato di una balconata a uso dell’orchestra; l’ingresso e garantito da uno scalone marmoreo posto a destra del portone centrale del teatro.
Particolarmente interessante appare l’impianto statico dell’edificio: secondo i canoni tradizionali esso si struttura su una gabbia muraria perimetrale, al cui interno vengono ritagliate le singole unita funzionali, e su un grande tetto di copertura retto da capriate: data la scarsa consistenza del terreno, il sistema di fondazione, risulta impostato su una fitta sequenza di pali in legno. La facciata si distingue per l’aspetto decisamente neoclassico: il largo e profondo portico inferiore a nove fonici accentua l’assialità dell’edificio rispetto all’antistante Via Emilia; il piano mediano, percorso da una balconata, risulta suddiviso in sette parti da semicolonne ioniche racchiudenti, al loro interno, le aperture finestrate e i sovrastanti riquadri decorativi; la chiusura superiore e costituita da un alto cornicione dentellato su cui si innesta, nella parte centrale, un grande timpano triangolare.
Il 31 agosto 1842 la deputazione per il nuovo teatro dà l’imprimatur definitivo al progetto del Ghinelli.
Difficoltà di carattere amministrativo e finanziario ritardano però ulteriormente la consegna dei lavori che si attua il 24 Aprile 1843: l’impegno è di completare l’opera entro la primavera del 1846.
L’incarico per le decorazioni in cotto previste nella facciata principale viene affidato all’artista bolognese Gaetano Bernasconi. II regolamento approvato in quell’occasione fissa norme precise circa le modalità dell’intervento: in primo luogo, “l’obbligo di eseguire undici bassi rilievi da farsi nei riquadri sopra le finestre della facciata principale del teatro, rappresentanti ognuno di essi emblemi musicali ed altri ornati allusivi alla fabbrica, i quali dovranno tutti essere diversi fra loro e variati e disposti a modo che facciano buon effetto, ed armonia”; inoltre, “l’obbligo di eseguire altro basso rilievo nel timpano del frontone, il quale rappresenterà nel centro lo stemma del comune e nei due lati i due fiumi Savio e Rubicone con quei caratteri che gli verranno indicati in iscritto”.
La loro disposizione segue un ordine ben definito: al centro, Apollo dio delle arti; a destra, Talia (commedia), Melpomene (tragedia), Clio (storia), Polinnia (retorica), Venere (amore); a sinistra, Bacco (allegria), Calliope (poema eroico), Ercole (forza), Tersicore (danza) e, ancora una volta, Bacco (forse in onore del vino di Romagna). L’incarico “per dipingere il soffitto della platea del nuovo teatro, bocca d’opera ed atrio” viene affidato,nel 1845.al professor Francesco Migliari di Ferrara.
L’esito di quest’ampia opera di decorazione si fa apprezzare soprattutto nella volta della sala, dove quattro riquadri con episodi della Divina Commedia e quattro tondi con figure allegoriche (poesia, musica, tragedia, melodramma) si dispongono all’interno di una fitta ornamentazione a monocromi e arabeschi in parte dorati; di buon livello risultano anche le pareti della platea, trattate a stucco lucido e ingentilite da raffaellesche e fregi di grande compostezza formale.
Nel corso del 1846 il teatro viene dotato, in fasi successive, di un sipario principale del cesenate Antonio Pio, di un secondino del faentino Romolo Liverani e di alcune scene dipinte da Pietro Venier di Verona.
Il soggetto della tela per il sipario risulterà di sicuro effetto:” l’apoteosi di Dante Alighieri”, in cui il vate nazionale viene condotto dall’Italia al tempio della gloria.
Portate a termine tutte le opere di carattere edilizio, comprese le decorazioni, le macchine, le scene e gli arredi, il 15 agosto 1846, dopo appena tre anni dalla posa della prima pietra, il teatro può essere ufficialmente inaugurato.
L’estate calda e afosa non impedisce la celebrazione solenne, in occasione della tradizionale fiera d’agosto, di un avvenimento così importante  per i cesenati.
La rappresentazione proposta è divisa in due parti: prima l’opera Maria di Rohan, parole di Salvatore Cammorrano e musica di Gaetano Donizzetti, poi il balletto Beatrice di Gand con la famosa Fanny Essler.
E’ l’inizio di una nuova attività artistica che vedrà il Comunale di Cesena in una posizione di spicco fra i teatri italiani  per le sue eccellenti qualità tecniche e acustiche. Si tratta, insomma, di una perfetta macchina per lo spettacolo, ricca di tutti gli accorgimenti elaborati in più di un secolo di esperienze nelle maggiori città d’Italia e  d’Europa. Anche dal punto di vista formale l’organismo architettonico porta a compimento un processo che dalle fantasie del barocco e del rococò e dalle successive rielaborazioni in chiave neoclassica sembra approdare  a una sorta di razionalismo classicheggiante, caratterizzato da un’equilibrata distribuzione degli spazi, da un proporzionato rapporto fra pianta e alzato, da una composta e pacata organizzazione dei volumi edilizi e degli elementi decorativi.
Il teatro di Cesena e’ sicuramente  l’opera più importante  e compiuta di Vincenzo Ghinelli (Senigallia, 1792 – 1871) la cui carriera di architetto è segnata in modo quasi ininterrotto dalla realizzazione, soprattutto nelle Marche, di numerose fabbriche teatrali.
Vincenzo Ghinelli, insomma, si affianca con grande autorevolezza a quella fitta schiera di architetti e ingeneri che con dignità e decoro operano, attorno alla metà del secolo scorso, per dare un volto piu’ chiaro e vivibile alle città grandi e piccole sparse nelle regioni italiane. In questo senso anche l’intervento maggiore del Ghinelli, il teatro comunale di Cesena, può trovare una sua collezione sicura fra le realizzazioni più significative dell’Ottocento ed esprimere compiutamente quell’ansia di progresso civile e culturale che caratterizza, non solo a Cesena, un’intera classe politica e amministrativa.   

 

Giordano Conti

Segni di teatro

Edificato tra 1843 e 1846 sul sito dell’antico teatro nobiliare di palazzo Spada, il Teatro Comunale Alessandro Bonci si presenta nella forma esemplare del teatro all’italiana, coniugando armonicamente la mirabile funzionalità dell’organizzazione interna degli spazi e il sobrio decoro della facciata in perfetto stile neoclassico.
Le prime notizie su rappresentazioni teatrali a Cesena risalgono alla fine del Quattrocento, anche se si può presumere che già nel Medioevo, come in ogni altra città, siano state ricorrenti e numerose sia le sacre rappresentazioni, sia le farse o spettacoli comici, sia le esecuzioni musicali nei palazzi signorili: viene segnalata ad esempio la rappresentazione, nel 1492, della commedia Menecmi di Plauto nel Palazzo del barone Jeronimo de’ Conti, mentre una decina d’anni dopo, nel 1505, venne allestita la commedia Filettolo e la sua amante Lisbena compagna di Diana, di autore ignoto.
Addirittura nel secolo precedente si può far risalire la scrittura della Tragedia de casu cesene di Ludovico da Fabriano (anche se attribuita ora a Petrarca ora a Salutati): dopo la stesura “a caldo” subito successiva alla distruzione della città nel 1377, la tragedia è stata probabilmente rappresentata ma non si hanno notizie di allestimenti fino ad una recente messa in scena.
Dal Cinquecento in poi, opere in musica e commedie, oratori e melodrammi furono rappresentati in palazzi cittadini (Locatelli, Alidosi poi Spada, Fantaguzzi), nello stesso Palazzo municipale oppure in Cattedrale, mentre nelle piazze compariva il teatro dei comici: era l’anno 1587. “Si chiamavano Amorevoli dal cognome del loro capo – rilevava Nazzareno Trovanelli in un articolo del 1902 – e piacquero siffattamente ai nostri antenati, che si mossero a raccomandarli al cardinal legato, residente in Ravenna”.
Con prevalenza dapprima di commedia e tragedia e successivamente di opere in musica, il Palazzo Spada, già Alidosi, che sorgeva nel sito dell’attuale teatro, divenne la sede privilegiata dell’attività teatrale aperta al pubblico: infatti fu in tale luogo, nel 1748 durante un soggiorno cesenate, che Casanova assistette – lo ricorda nelle sue Memorie – ad una rappresentazione dell’opera La Didone abbandonata.
L’ipotesi di costruire un teatro in legno nel Palazzo Spada dall’aristocrazia cesenate venne accarezzata e a lungo perseguita, fino a che nel 1786 fu istituita la Congregazione o Deputazione teatrale, un’associazione che riuniva alcune tra le famiglie nobiliari al fine di organizzare e gestire spettacoli teatrali.
La Deputazione che, a lungo si assunse l’onere dell’allestimento della stagione teatrale, affidandone la gestione ad impresari, affittò una parte del Palazzo Spada ove edificò un Teatro in legno che venne inaugurato il 13 maggio 1798 con l’opera buffa La donna volubile di Marcantonio Portogallo.
Il teatro, di tipica struttura “all’italiana”, di forma ovale, con platea e tre ordini di palchi, venne affittato dal Municipio nel 1828: da allora fino al 1843, anno della sua demolizione avvenuta per lasciar luogo al costruendo Teatro Comunale poi Bonci, continuò a propore una attività importante (con la presenza, ad esempio, di Adelaide Ristori nel 1842), assai simile a quella che caratterizzerà dal 1846 il teatro nuovo.

Un angolo di teatro all'italiana

La costruzione del teatro pubblico, civico, segna in ogni città italiana un momento di passaggio tra una società prevalentemente aristocratico-nobiliare, nella quale lo spettacolo era soprattutto occasione salottiera, intrattenimento racchiuso e risolto nei palazzi signorili, ad una società prevalentemente aristocratico-borghese in cui il teatro, realizzato in spazi pubblici di grandi dimensioni, diveniva l’esplicitazione di un patto sociale che garantiva stratificazioni e gerarchie.
Il progressivo mutare delle condizioni storiche e, in particolare politico-amministrative, e delle forme dello spettacolo teatrale (con il passaggio, ad esempio, dall’opera seria e bufffa settecentesca all’opera romantica ottocentesca di Donizetti, Rossini, Verdi e Puccini), è maturato certamente attraverso vicende, aggiustamenti, compromessi e soprattutto sperimentazioni linguistiche, architettoniche e urbanistiche che hanno attraversato un secolo, tra la metà del Settecento e la metà dell’Ottocento.
In questo lungo frangente le principali città romagnole si dotarono di teatri civici che, sebbene caratterizzati da modelli architettonici diversi (la cavea a campana fu scelta da Cosimo Morelli per il Teatro di Forlì, inaugurato nel 1776; la forma ellittica, invece, fu applicata dallo stesso Morelli per il Teatro di Imola, ultimato nel 1781; la cavea a ferro di cavallo con matrice circolare, infine, caratterizzò il Teatro di Faenza di Giuseppe Pistocchi, aperto nel 1788), avevano in comune alcune prerogative che è opportuno sottolineare proprio in funzione del Teatro di Cesena:
•    l’edificio-teatro introduceva nell’organismo urbano un elemento di alta qualificazione architettonica e una consistente presenza monumentale; era perciò tipologicamente “altro”, spesso isolato, rispetto agli edifici pubblici e privati esistenti, quasi a voler sottolineare ed accentuare le diversità e novità che le “sorti progressive” stavano introducendo nella società contemporanea;
•    il luogo-teatro corrispondeva all’esigenza sempre più accentuata di convivenza civile alla quale il Teatro, con l’ampia cavea e i confortevoli servizi, offriva non solo accogliente ospitalità ma piuttosto la consistenza di un riconosciuto valore simbolico. Con la disposizione gerarchica strutturale (all’aristocrazia competevano i palchi, al popolo borghese la platea, al proletariato il loggione o i posti in prima fila nelle vie adiacenti per assistere all’ingresso), il luogo-teatro individuava e simboleggiava l’esistenza di un codice culturale (che si traduceva nella “passione” per il melodramma e per la romanza) comune ai diversi strati sociali, uniti dall’eleganza sobria che lo splendore del sublime teatrale comunicava a tutti i cittadini;
•    il laboratorio-teatro richiedeva qualità tecniche sempre più raffinate e una funzionalità altrettanto lontana dal macchinismo barocco e dalla fissità classica: i teatri così vennero dotati di quei meccanismi elementari, forse, rispetto a talune scenografie odierne e agli allestimenti seicenteschi, ma essenziali ed efficaci per la realizzazione di qualunque tipo di spettacolo, con prevalenza naturalmente per quello musicale che fino alla metà del Novecento sarà preferito dal pubblico al genere drammatico (“Ho un bel pregare – scriveva Gustavo Modena nel 1845 – gridare che uccidono l’arte drammatica, indispettirmi; è tutt’uno: vogliono l’opera”).
L’indiscutibile ritardo con cui Cesena, rispetto ad altre città romagnole (Forlì, Faenza, Ravenna e Imola avevano già teatri pubblici nel ‘700, anche se nessuno di essi si è conservato nella forma originale fino ad oggi), affrontò il problema della costruzione del proprio Teatro, se ha avuto certamente cause occasionali (ad esempio, l’esistenza di una sala teatrale sufficientemente ampia e qualificata nel Palazzo Alidosi, poi Spada), fu comunque fonte di ripetute critiche e discussioni nei circoli e salotti cittadini del primo Ottocento. In realtà i decenni trascorsi a confrontare le opinioni giocarono a favore dell’eccezionale risposta che Cesena riuscì a dare alle nuove e ricorrenti esigenze. Non solo perchè il Gonfaloniere, la Deputazione teatrale e il Consiglio si sentirono particolarmente motivati ad investire la somma allora enorme di L. 487.432, proprio per “recuperare” il tempo perduto (“Perchè – si chiedeva il Gonfaloniere Conte Saladino Saladini Pilastri, in un intervento in Consiglio – nella nobile gara resteremo noi indietro?”) ma soprattutto perchè soltanto attorno alla metà dell’Ottocento, dopo quasi un secolo di interventi e sperimentazioni, giunse alla perfezione e alla definitiva consacrazione quella macchina architettonica che da allora verrà denominata “teatro all’italiana”: di questo modello il Teatro di Cesena, per l’acustica straordinaria, l’ampiezza del palcoscenico, l’eleganza e funzionalità di tutti i servizi è certamente uno degli esempi più riusciti ed importanti.
In realtà l’architetto Vincenzo Ghinelli (noto al tempo per avere progettato il nuovo teatro di Senigallia, sua città natale, nel 1839-40), al quale nel 1841 venne affidato l’incarico di progettista, poteva contare, quale presupposto del suo lavoro, su un riferimento teorico settecentesco e una realizzazione concreta di circa cinquant’anni precedente.
Infatti nel suo Saggio sopra l’opera in musica del 1763, Algarotti, dopo aver criticato l’intrinseca “fonicità” dei teatri con cavea a campana, sostenuta dal Bibiena e realizzata, ad esempio, nel Comunale di Bologna, aveva teorizzato la superiorità, in termini di acustica, della pianta a ferro di cavallo, procedendo quindi ad una descrizione dell’interno del teatro, frutto di un’architettura “permeabile”, che fu perfettamente realizzata nel tempio della lirica, il Teatro alla Scala, progettato da Giuseppe Piermarini e realizzato dal 1776 al 1778. Da metà Ottocento la tipologia di Algarotti venne riconosciuta come la più efficace per la sua superiorità tecnica ed artistica.
Il Teatro di Cesena, che al tempo della sua costruzione era l’unico esempio romagnolo di tipo algarottiano, poteva usufruire all’epoca della migliore conoscenza dei materiali e di una maggiore consapevolezza delle necessità dello spettacolo contemporaneo, e quindi poteva realizzare più compiutamente il celebre invito dell’Algarotti: “Niente vi ha da impedire la veduta; niun luogo, per piccolo ch’ei sia, ci ha da rimanere perduto; e gli spettatori debbono far parte anch’essi dello spettacolo, ed essere in vista come i libri negli scaffali di una biblioteca, come le gemme ne’ castoni del gioiello.”
Con questi riferimenti – l’Algarotti sul piano teorico, il Teatro alla Scala sul piano concreto – Vincenzo Ghinelli, certamente scelto per le competenze dimostrate nella realizzazione di quella precisa soluzione architettonica, elaborò il progeto del nuovo Teatro, i cui lavori iniziarono il 15 agosto 1843 con la posa della “prima pietra”: alla cerimonia partecipò una “folla di popolo festante” guidata da Edoardo Fabbri, drammaturgo e letterato cesenate, autore tra l’altro di una tragedia sul “sacco dei Bretoni”, I cesenati del 1377, che si rifà anche a quella Tragedia de casu cesene che abbiamo indicato in precedenza.
Nell’occasione Fabbri, affidando ai posteri il “nuovo ed assai bel teatro”, polemizzava a distanza con la politica napoleonica che pretendeva di concentrare solo nelle città di maggiori dimensioni i gioielli della cultura e dell’arte, relegando le altre ad un ruolo meno significativo: in accordo implicito con i nuovi gruppi dirigenti aristocratico-borghesi della città (i più distinti cittadini” come li chiama l’oratore) che ritenevano necessario investire ingenti somme di denaro e “tutto lo zelo” perchè anche a Cesena non mancasse il segno della nuova epoca, egli stesso afferma che “occasione più a proposito di questa per esercitare l’ingegno dei paesi non si dà”.

Inaugurazione

Tre anni dopo, il 15 agosto 1846, il Teatro fu sontuosamente inaugurato. Il risultato dei lavori, eseguiti dall’ Impresa del “capo maestro muratore” cesenate Nicola Cortesi e diretti dallo stesso Vincenzo Ghinelli, era splendido: il Teatro, grandioso, venne subito riconosciuto come uno dei monumenti più significativi della città.
In effetti, il progetto di Ghinelli aveva interpretato giustamente e magari esteso ulteriormente quelle richieste di grandiosità che dalla Deputazione e dal Consiglio erano stae espresse, pur dopo lunghe e ripetute discussioni, dapprima sull’ opportunità o meno di restaurare il Teatro Spada, poi, una volta riconosciuta la necessità di abbatterlo, sulle modalità con le quali affidare l’ incarico di progettista, infine sui livelli inusuali si spesa che il progetto definitivo comporatva per il Municipio.
Ma quando il Teatro fu completato, ogni discussione non ebbe più ragione di essere: i desideri, espliciti o riposti dell’ aristocrazia alla guida di Cesena (ossia meravigliare e stupire con un fabbricato-simbolo della città), erano stati pienamente realizzati.
Il progettista aveva concepito, infatti, una costruzione imponente con un’ ampia platea nella classica forma a ferro di cavallo, quattro ordini di ventitrè palchi ciascuno, oltre ai due di proscenio, e un loggione superiore. La disposizione planimetrica è perfetta sul piano formale e funzionale: la lunghezza complessiva è divisa in tre parti pressochè uguali, l’ ampio atrio con servizi, la cavea e il palcoscenico di rilevanti dimensioni, in diretta comunicazione con l’ esterno. Due grandi scaloni conducono il pubblico dall’ atrio agli ordini superiori, mentre quattro scale di servizio sono disposte simmetricamente agli angoli della cavea.
Per la presenza di un corso di acqua sotterraneo, le fondazioni vennero costruite su pali di legno che sostengono una gabbia muraria perimetrale che contiene a sua voltale singole unità funzionali e un grande tetto retto da enormi capriate: la cassa armonica di eccezonale qualità funzionale è interamente in legno.
Il nuovo Teatro, che domina una piccola piazza, si distingue nel tessuto urbano per la maestosità dei volumi, descritti nei paragrafi precedenti, e per l’ insieme sobrio ma efficace delle decorazioni. Lo stile neoclassico adottato in tutta la costruzione emerge soprattutto nella facciata dalle rigorose proporzioni: ad un lungo portico inferiore parallelo all’ antistante Via Emilia, sono sovrapposte una balconata, divisa in sette parti da semicolonne ioniche, e un timpano triangolare con lo stemma del comune e ai lati le figure dei fiumi Savio e Rubicone. L’ aspetto decorativo della facciata è completato dai bassorilievi del bolognese gaetano Bernasconi che raffigurano, accanto all’ Apollo centrale, le muse (Talia, Melpomene, Clio, Caliope, Polimnia e Tersicore) e alcune divinità (Bacco, Ercole e Venere). L’ interno è arricchito dalle decorazioni del ferrarese Franceso Migliari: le balconate e gli interni dei palchi sono trattate a stucco lucido con raffaellesche dorate; il soffitto, di grande effetto, è interamente affrescato e dipinto con disegni monocromi fra arabeschi e vi campeggiano quattro tondi raffiguranti le muse e alcuni riquadri con scene tragiche.
Le scene originali del veronese Pietro Venier e il sipario del cesenate Antonio Pio, seppure in pessimo stato, sono stati conservati; sono scomparsi invece il “secondino” originale di Romolo Liverani e quello successivo di Lucio Rossi. Le gratticciate e i tamburi sono invece ancor’oggi in ottimo stato e costituiscono gli elementi fondamentali del grande laboratorio del Teatro Bonci: alcune macchine antiche sono ancora conservate in palcoscenico, sebbene inutilizzate da moltissimi anni. Al secondo piano, sopra l’ atrio, venne ricavato dal Ghinelli il Casino del Teatro con proprio scalone di accesso, una antisala, sei scale secondarie e un’ ampia sala centrale, utilizzata in epoche diverse sia per conferenze sia per concerti.
Sul fondo della scala, sorge un terrazzino, adibito ad uso orchestra che da’ diretto accesso al secondo ordine dei palchi mediante un aporta e una ripida scala: sulle pareti laterali sono aperti alcuni palchi-finestre che comunicano con i soffitti.
Le modifiche apporatete all’ edificio dal 1846 ad oggi, anche se numerose, sono irrilevanti e hanno rispettato nella sostanza il progetto originale: dal 1895 al 1990 furono restaurate le decorazioni interne ed esterne; nel 1924 venne introdotto il “golfo mistico” con il conseguente arretramento del palcoscenico; in quest’ ultimo dopoguerra, sono stati apportati miglioramenti e adeguamenti tecnici e normativi (come l’ introduzione dell asaracinesca tagliafuoco nel 1976).

Centocinquant'anni di teatro

In questo contenitore, che ha conservato nei decenni una funzionalità invidiabile, unica in Romagna, tale da consentire una continuità di attività pressoché ininterrotta dal 1846 ad oggi, è stato ospitato un secolo e mezzo di teatro spesso assai qualificato, sempre attentamente seguito e discusso da una città particolarmente affezionata al “suo” comunale.
Da questo punto di vista la storia del Bonci offre certamente uno spaccato ampio e significativo della storia del teatro italiano contemporaneo, con il progressivo mutare dei pubblici, del prodotto teatrale, delle strutture amministrative e gestionali. Ma per entrare meglio nel clima, indugiamo un momento sulle grandi serate inaugurali: un mondo teatrale in parte dimenticato si affaccia alla ribalta della storia.
Impresari, come Vincenzo Jacovacci, definito dal cronista del giornale bolognese “Teatri, Arti, Letteratura” come “il primo Impresario d’Italia” che da Senigallia portò “l’intero personale”, artisiti come Teresa De Luigi Borsi e Fanny Elssler, opere come la Maria di Rohan di Donizetti e I lombardi di Verdi (che alla “prima” non riscosse tuttavia l’atteso successo di pubblico, la qual cosa sorprese non poco il suddetto cronista), balli come Beatrice di Gand ossia un sogno e Ugolino della Gherardesca di Domenico Ronzani. ma soprattutto il caldo pubblico di quella tarda estate 1846, sono i protagonisti di un mese memorabile nel quale tra debutti e repliche, beneficiate e fuori abbonamento, non passò serata nella quale il Teatro non si aprì per celebrare il rituale dello spettacolo ottocentesco. Tutti parteciparono al grande evento del quale la città parlò e discusse a lungo: Mattia Mariani il cuoco della famiglia dei conti Masini ne fa addirittura un particolareggiato resoconto. “Fu apperto nella sera di Sabato 15 detto il nuovo Teatro Comunale (…) con Opera in Musica. – scrive nella inedita Cronaca cesenate dal 1814 al 1872 – La piena di popolo che vi fu in Teatro in tale sera tanto cesenate che foresto fu immenso”. Ne restò un segno indelebile, inaugurale, che si rinnoverà di anno in anno in ogni stagione con un codice e un cerimoniale fissato dalla consuetudine: “Terminata l’ultima danza fra gli evviva unanimi, si videro dall’alto del palco scenico calare due bambini vestiti da genii, con in mano I’uno una corona, I’altro un mazzo di fiori, in atto d’incoronare, come fecero, la dea della danza e di presentargli i fiori celesti. (…) Ciascun palco di second’ordine, passò al proscenio, girandolo da palco a palco, un boché di fiori che poi andavano tutti a terminare dalla inarrivabile beneficiata.
I ritratti della medesima, dispensati a tutti i palchi di ciascun ordine furono appesi nei parapetti”. In quelle prime serate il pubblico si segnalò anche per le interperanze protestando per l’improvvisazione di alcuni spettacoli, “perché non ultimato il vestiario e le scene, fu forza il fare alzare la tela un’ora dopo del consueto: perché un forte e continuo mormorio causato da indescrivibile disordine, regnò per tutta la sera nel palco scenico “.
La diversità di clima e di codice tra il mondo teatrale all’opera nelle giornate inaugurali e quello odierno che conosciamo e frequentiamo è evidente: la lunga e appassionante storia che scorre tra i due estremi, ha vissuto vicende di straordinaria intensità e momenti di forte mutamento, anche di stridente contrasto, suscitando tuttavia il senso di una sicura tradizione che ha accompagnato tutta la storia del Teatro di Cesena. In questa continuità esistono certamente momenti di cesura, di passaggio, originati, ad esempio, dalle innovazioni tecnologiche che indubbiamente mutarono I’aspetto del Teatro (nel 1870 I’illuminazione a candele di sego fu sostituita dall’illuminazione a gas e solo nel Novecento il Teatro usufruì dell’allacciamento alla rete elettrica cittadina) oppure dal successivo accadere delle epoche storiche (I’unità, I’età giolittiana, il fascismo, il dopoguerra); oppure, ancora, dalle fasi di evoluzione/involuzione specifiche del Bonci, per vero non sufficientemente documentabili (le fonti sono spesso “cronache”, in cui predomina la soggettività e il gusto individuale).
Esiste tuttavia una grande cesura generale nel teatro contemporaneo italiano, che ha certamente mutato radicalmente anche la storia del Teatro di Cesena: il secondo conflitto mondiale è, da questo punto di vista, un momento di non ritorno. Addirittura, si può affermare che in Italia il Novecento teatrale (la rivoluzione registica, il rifiuto delle “ansimanti compagnie di giro”, del mito del grande attore) cominci quando l’inizio del secolo è passto già da molti anni, con la riforma dello spettacolo lirico ad opera principalmente di Arturo Toscanini (che aveva “liberato” il Teatro alla Scala dai vincoli ottocenteschi dei palchettisti e degli impresari, riuscendo ad istituire già nel 1921 il primo Ente teatrale pibblico, l’Ente Autonomo Teatro alla Scala, poi veramente attivo dal dopoguerra in poi) e con la riforma della “drammatica”, dovuta innanzitutto a Giorgio Strehler e Luchino Visconti e al loro rifiuto delle “glorie” del passato: “le borghesi scenografie con le parapettate, i suggeritori e i vecchi tromboni”, come ricorda Vittorio Gassman, diretto protagonista della “rivoluzione teatrale” immadiatamente successiva al secondo conflitto mondiale.

Dall'inaugurazione al Secondo Conflitto Mondiale

“Martedì per la serata di Alessandro Bonci, il teatro gremito di un pubblico sceltissimo presentava un colpo d’occhio splendido “: i giornali dell’epoca nelle entusiastiche cronache dello spettacolo teatrale di turno sembrano più interessati a riferire del comportamento dello “sceltissimo pubblico”, piuttosto che a rendere ragione di ciò che è avvenuto sulla scena. In effetti è il pubblico il protagonista, perché anima, fa spettacolo anche quando, qualche volta, impedisce lo svolgersi della rappresentazione. Ogni volta si riversavano nel Teatro fino a milleseicento persone (di cui quattro-cinquecento nel loggione) che spesso festeggiavano, mangiavano, commentavano, fischiavano e applaudivano, componevano sonetti, lanciavano fiori o cartellini multicolori o pomodori, offrivano doni (Alessandro Bonci raccolse 16 doni “ufficiali”, il primo dei quali, “Grande astuccio, servizio gelati e caffè per 12. Porcellane Ginori, cristalleria Boemia, argenteria Brozzi”, era stato predisposto dagli Esercenti). Lo spettacolo per il pubblico, però, iniziava molto prima con l’entrata degli attori in città (memorabile I’arrivo di Benassi la cui carrozza venne trainata dalla folla che, entusiasta ne staccò i cavalli) e con l’ingresso dei “Signori ” in teatro, osservati e chiacchierati da chi era rimasto fuori; e proseguiva ben dopo il termine dello spettacolo, con grida, applausi, canti, stornelli
e fiori sotto le finestre dell’albergo o della casa patrizia nella quale il grande artista di turno soggiornava oppure con lo scherno e i fischi se la serata era andata male, nel qual caso anche il Gonfaloniere non poteva dormire sonni tranquilli, se è vero, come nota una cronaca del 1840 riferendosi ad uno spettacolo svoltosi nel vecchio Teatro Spada, che una “turba di giovanastri aspettò il Gonfaloniere che uscir dovea dal teatro, e si fece lecito di seguirlo con fischi e urli”.
I cronisti del “teatro all’antica italiana”, anche nei centri della provincia teatrale, sono in realtà testimoni partecipi ed entusiasti di un fenomeno dai confini e dalle dimensioni ben più ampie che sta trasformando le forme dello spettacolo: il pubblico e ormai il protagonista, non solo perché lo spettacolo vero si svolge nei palchi spesso chiusi da siparietti per garantire una maggiore riservatezza, ma piuttosto perché nella società industriale in via di costituzione si crea una specularità sociologica, linguistica e spettacolare tra platea e scena, che prefigura la nascita delle comunicazioni di massa, del cinema e della televisione, tipiche della società contemporanea. In questo quadro, non stupisce che una “passione” così intensa e travolgente per il melodramma fosse comune a tutti gli strati sociali, attendendo tuttavia ad una rigorosa gerarchia del cui rispetto era garante il Regolamento del Teatro emanato il 7 settembre 1843. In particolare veniva stabilito che i palchi potevano essere dati in affitto soltanto ad alcune categorie sociali: “gli individui possidenti di Città e Campagna, uomini di lettere, negozianti; impiegati maggiori, ed esercenti le arti non vili e non sordide”. Gli altri cittadini potevano accedere soltanto alle parti giudicate meno nobili, la borghese platea o il proletario loggione.
Il Regolamento del Teatro, fonte di straordinario interesse storico, indicava anche con assoluta precisione la struttura della stagione o cartellone annuale, nei termini di una clausola contrattuale tra il Comune e i palchettisti: il Teatro doveva essere aperto almeno due volte all’anno, proponendo alternativamente una “Compagnia comica ” (la “drammatica”) e un “Opera in musica”, in periodi che coincidevano con le festività d’inverno (il Carnevale) e d’estate (la tradizionale “Fiera di Assegna “, in Agosto), il che spiega anche la diffusione di quei codici di comportamento e di quelle modalità aggreganti indicate in precedenza come tipiche del pubblico dell’Ottocento. Pur nell’alternanza tra teatro musicale e teatro drammatico, le “serate” avevano una struttura comune, assai diversa da quella attuale: a conferma ulteriore di un’atmosfera più vicina alla festa civica che alla ritualità spettacolare, erano costituite da un palinsesto con uno spettacolo “principale” (appunto un’opera o un dramma) e intermezzi o esibizioni che “riempivano” i numerosi intervalli. In aggiunta, per un originale idea di “spettacolo totale”, era usanza, nel pomeriggio precedente allo spettacolo, estrarre una tombola o eseguire altro gioco di società, se non addirittura organizzare corse e spettacoli in piazza.
Il Teatro, dunque, esplodeva nella città: travolgeva ogni altra occupazione per tutto il periodo di permanenza degli artisti, scatenando commenti e chiacchiere, confronti e critiche.
Il teatro musicale raccoglieva certamente i favori del pubblico: era organizzato da impresari che allestivano tournée nazionali e opere di giro (come Santini, Romiti, Tinti, De Lorenzi, Cantagalli, Ceccaroni, Ragazzini, Zani, Zavaglia, Albertarelli, Moretti, Scalabrini, Laghi, Ferrari) oppure da imprese locali costituite appositamente per I’organizzazione e la gestione della stagione lirica del Bonci (come I’Impresa Società Cittadina nel primo Novecento, I’Ente Autonomo Teatro Cesena tra le due guerre e I’Impresa cittadina nel secondo dopoguerra) alle quali il Comune assegnava una “dote”, un contributo a fondo perduto, spesso sostanzioso. Ogni stagione lirica, solitamente composta da tre titoli replicati più volte (interessante la struttura dell’abbonamento: copriva I’intera stagione favorendo la fruizione da parte dell’abbonato di più repliche dello stesso spettacolo, e non come oggi di spettacoli diversi), proponeva sia opere che oggi vengono definite di repertorio, le celebri composizioni soprattutto di Verdi e Puccini, sia decine di opere ora dimenticate, ma in grado, un tempo, di scatenare le folle. Gli allestimenti, curati dalle Imprese locali e, in misura minore, le opere di giro, trasformavano il Teatro Bonci in un grande cantiere per la produzione in loco degli spettacoli, soprattutto per la costruzione delle scene (teli dipinti sorretti da cantinelle) e per la predisposizione dei costumi e dei rumori: perciò il Teatro disponeva di strutture fisse, come le macchine del tuono, della saetta, del fulmine che, collocate nei ballatoi del palcoscenico, provocavano tremendi boati nei momenti salienti degli spettacoli, e di personale proprio, soprattutto i “macchinisti”, la cui arte di antico sapore artigianale era tramandata di padre in figlio.
Completamente assente era invece la funzione del regista e, fino alla fine dell’Ottocento, del direttore d’orchestra e maestro concertatore. Il teatro drammatico aveva un’organizzazione simile: anche in questo caso le imprese di giro sostavano al Bonci per circa un mese all’anno, in un periodo alternato rispetto all’opera, tuttavia erano gestite e condotte da un “capocomico”, spesso il grande attore, piuttosto che da un imprenditore teatrale. Le Compagnie presentavano un repertorio composto da numerosi titoli e quindi assolutamente disomogeneo: tragedie e commedie, drammi in prosa e in versi, testi antichi e contemporanei erano seguiti in egual misura da un pubblico festante, per il quale il momento culminante era rappresentato dalla tirata del protagonista, il mattatore ottocentesco, che, avanzando alla ribalta, davanti a scene fisse comuni a spettacoli assai diversi tra loro, accalorava e trascinava la platea.
Il divismo funzionava dunque alla perfezione, favorito dalle straordinarie qualità degli artisti ottocenteschi: quasi tutti i “grandi” del tempo passarono dal Bonci (in particolare gli attori del teatro all’antica italiana: Adelaide Ristori nel 1862, Ernesto Rossi nel 1878, Tommaso Salvini nel 1879, Ermete Novelli nel 1900, Virginio Talli e Irma Grammatica nel 1901 e così via). Ma l’artista più acclamato e amato fu un cesenate di fama internazionale, Alessandro Bonci (al quale sarà dedicato il Teatro), che tornò nella città natale, dopo eccezionali trionfi, per una “stagione straordinaria di musica ” nel 1904: cantò nel Faust di Gounod “con voce divina”, come ricordano le cronache del tempo. Tutto I’apparato del teatro dell’Ottocento raggiunse in quell’occasione il “diapason”: le acclamazioni, i sonetti, i doni non ebbero paragone. Una lapide fu collocata in Teatro dove tuttora campeggia: “Qui il tenore Alessandro Bonci cesenate aggiungeva nuova e più fulgida fronda alla sua gloriosa corona d’artista prodigando il canto sovrano a sollievo dei miseri”. Questo evento straordinario ricordato per generazioni aprì la fase forse più importante nella storia del Teatro: durante il primo quindicennio del secolo, nel contesto di una felice stagione della cultura cesenate (che vide non solo I’opera di Renato Serra, ma anche la presenza di grandi personalità come Gaspare Finali, Nazzareno Trovanelli, Ubaldo Comandini, Eligio Cacciaguerra e la pubblicazione di numerosi giornali locali), il Bonci divenne il centro della cultura e della vita civile. Accanto alla programmazione, straordinariamente ricca, che proponeva le migliori Compagnie drammatiche e i grandi della lirica contemporanea, il Teatro ospitava iniziative politiche, culturali, addirittura sportive (proiezioni di films, conferenze, esibizioni di illusionisti e maghi, tornei di lotta greco- romana): fra i tanti eventi, ricordiamo la rappresentazione dell’opera Sansone e Dalila di Camille Saint-Saens, nel 1911, alla presenza dell’autore e, nella stagione successiva, I’allestimento della Fanciulla del West che offrì a Giacomo Puccini I’occasione di una visita a Cesena; ancora, ricordiamo gli interscambi tra il Teatro e Renato Serra, dalla presentazione del concerto di Carlo Bersani e Emilio Gironi nel 1913 alla redazione, nello stesso anno, dei testi della plaquette del programma commemorativo per il centenario di Richard Wagner, “il genio di Lipsia”, e di Giusppe Verdi, “il cigno di Busseto”, ai quali la cittadinanza dedicò nell’occasione due effigi ai lati della porta d’ingresso alla sala, accumunandoli nel ricordo dopo averli magari divisi nella polemica di un giorno, fino alle celebri conferenze in ricordo di Giovanni Pascoli (1912) e di Giosué Carducci (1914). Un’attività così ricca, seguita tra I’altro da spettatori non solo locali (in platea per la citata commemorazione di Wagner e Verdi venivano segnalati, dagli attenti cronisti, Arturo Toscanini, Benedetto Croce e Tito Ricordi) non poteva non essere accompagnata, oltre che da una viva mondanità (pranzi con gli artisti, gala, ecc.), da una sorprendente e modernissima sensibilità verso I'”immagine” del Teatro: raffinati programmi di sala, splendide cartoline, incredibili fazzoletti di carta per signora con incisi i titoli delle opere, entusiastici articoli giornalistici, tutto concorreva alla promozione del Bonci e del mondo che lo circondava.

Dal dopoguerra a oggi

Nel teatro italiano del dopoguerra la metamorfosi è stata nettissima: il teatro musicale si è adeguato alle trasformazioni scaligere volute da Arturo Toscanini già qualche decennio prima; nelle principali città italiane nascono gli Enti lirici, mentre le Amministrazioni locali assumono sempre più la gestione diretta dei teatri. Gli impresari privati vedono restringersi l’area del proprio intervento, dovendo inoltre, per necessità economica, ridurre la qualità delle produzioni liriche. Analogamente, il teatro drammatico abbandona i capocomici, i repertori, i trovarobe, i buchi nei sipari: tramonta e scompare il “teatro all’antica italiana” con il suo fascino e la sua polvere di palcoscenico.
Subentrano le Compagnie d’autore sovvenzionate dallo Stato che, parallelamente , crea i propri Stabili (dal 1947, anno della fondazione del Piccolo di Milano, agli anni Settanta, nascono una decina di Teatri Stabili).
Se dunque il teatro dell’Ottocento si presentava in una forma pubblico- privata – il Teatro di proprietà pubblica era affidato ad imprese o compagnie private che organizzavano e gestivano gli spettacoli usufruendo comunque di una “dote” comunale -, il teatro del Novecento è sicuramente pubblico nella proprietà e nella gestione, affidata ad Enti pubblici che programmano stagioni teatrali con Compagnie ed Imprese pubbliche o comunque sovvenzionate dallo Stato. D’altra parte si afferma una figura artistica nuova e rivoluzionaria: si tratta del regista la cui funzione è quella di oggi nota e da tutti considerata fondamentale. In realtà, l’affermazione del regista ha rappresentato la violazione di codici antichissimi, la rottura di un solido isolamento tra il mondo del teatro e la rappresentazione, all’interpretazione culturale del regista ma anche del direttore d’orchestra, mediatore attivo tra l’autore e il prodotto teatrale.
Questa nuova concezione del teatro comportava necessariamente – è l’aspetto che qui ci interessa – una ridefinizione dei ogni codice linguistico e si ogni ruolo: bandita ogni imprecisione, lo spettacolo doveva essere rifinito e cesellato come un poema o un quadro fruito dal pubblico in condizioni diversissime dal passato, nel silenzio assoluto in sala, con una accoglienza “contenuta” di tipo alto-culturale.
A determinare questa trasformazione ha certamente contribuito anche il diverso “peso”, in termini assoluti, del mercato teatrale che fino agli anni Trenta capeggiava la classifica nazionale delle presenze, avendo ampiamente il predominio rispetto ad altre forme di spettacolo.
Successivamente, superato prima dal cinematografo e poi soprattutto dalla televisione , il teatro, seppure in termini attivi, da fenomeno di massa è divenuto paradossalmente fenomeno di élite, da spettacolo popolare e unitario è divenuto spettacolo per pubblici ristretti e diversificati.
Le conseguenze di questo mutamento di scenario sono state notevoli anche sulla gestione e sul cartellone del Bonci che ha visto modificare il proprio ruolo rispetto al secolo precedente.
Nell’immediato dopoguerra, precisamente nel 1952, in linea con la tendenza della gestione pubblica dei Teatri, il Bonci venne assegnato dal Comune dell’Ente Teatrale Italiano, un ente pubblico fondato nel 1942 con lo scopo di promuovere e valorizzare il teatro nazionale. Questa scelta, se favorì uno straordinario sviluppo del teatro drammatico (con la tradizione delle memorabili “prime” di Visconti, Gassman, della Compagnia dei Giovani negli anni Cinquanta e Sessanta poi ripresa per la gestione diretta da parte del Comune con i debutti di Lavia, Poli, di Carmelo Bene, del Trio Marchesini-Lopez-Solenghi, di Milva, degli spettacoli di Emilia-Romagna teatro e di Nuova Scena) che assecondava del resto i gusti emergenti del pubblico cittadino e nazionale, non fu altrettanto stimolante per il teatro lirico che perse progressivamente quel ruolo trainante che aveva avuto fino alla metà del secolo: le stagioni, molto più esigue, anche se conservarono a lungo una notevole qualità, non consentirono al Teatro di mantenere una posizione di rilievo in ambito operistico.
L’esclusione quindi della ristretta élite dei cosiddetti “teatri di tradizione”, agli inizi degli anni Settanta, alla quale ha certamente contribuito la minore efficacia dell’attività lirica nei decenni immediatamente precedenti, decretò la momentanea impossibilità per il Teatro di Cesena di organizzare quelle stagioni liriche di rilievo nazionale che la tradizione e la straordinaria qualità tecnica dello spazio potevano garantire.
Tuttavia il Bonci, gestito dal 1971, in linea con una tendenza regionale, direttamente dall’Amministrazione comunale ha saputo costruire, soprattutto negli anni più recenti, un cartellone teatrale non meno significativo di quello proposto da taluni teatri di tradizione: basata su una concezione del teatro non ristretta a pochi generei tradizionali ma estesa a tutte le forme di spettacolo contemporaneo, la stagione ora consolidata si è articolata su sei settori (prosa, ricerca, balletto, concertistica, lirica e teatro ragazzi) e su un centinaio circa di spettacoli, con presenze prestigiose e qualificate. Il pubblico, dopo un decennio assai numeroso, con punte record di circa sessantamila presenze prestigiose e qualificate. Il pubblico, dopo un periodo di crisi del resto generale nell’immediato dopoguerra, e’ da circa un decennio assai numeroso, con punte record di circa sessantamila presenze all’anno provenienti da un bacino di utenza provinciale, e un numero di abbonati superiore alle seimila unità.
La stessa prerogativa produttiva, esaltata dal laboratorio-Bonci, è stata rilanciata negli ultimi venti anni dal rapporto con l’Associazione Teatri Emilia-Romagna e con numerose Compagnie, nazionali e locali: in questo ambito, il Bonci è stato ripetutamente luogo di produzione per spettacoli sia musicali sia di prosa che hanno trovato nel Teatro di Cesena il contesto per felici debutti.

Al Bonci e dintorni: artisti cesenati di ieri e di oggi

Una vita teatrale così importante favorì il manifestarsi di rilevanti vocazioni artistiche: da Nicola Petrini Zamboni, violinista e direttore d’orchestra, a Adelaide Fabbri, attrice con Adelaide Ristori della Compagnia Drammatica Mascherpa, fino alle decine di artisti cesenati che compaiono tra le righe delle locandine in parti nobili e meno nobili, ma ugualmente significative.
Alessandro Bonci rimane nella memoria di tutti gli appassionati: la sua straordinaria carriera che lo portò a debuttare al Regio di Parma, ad affermarsi alla Scala di Milano e a trionfare in tutti i Teatri del mondo, venne seguita con calore ed affetto da tutta la città. In realtà, quel patrimonio vocale che gli consentì di affrontare partiture per altri ostiche e di incidere i primi dischi per la Fonitipia, la Columbia, la Odeon e i Cilindri Edison, fu ascoltato al Teatro Comunale nella stagione ufficiale in un’unica ma memorabile occasione, oltre alla serata di commiato nel 1927 con la Messa da Requiem di Verdi.
Numerose sono state anche le compagnie teatrali locali che dalla metà dell’Ottocento ad oggi hanno allestito spettacoli, spesso presentati al Bonci: dalla Società Filodrammatica Cesenate alla Accademia Filodrammatica Cesenate, attiva anche al di fuori della città dal 1871 al 1879, fino alla Compagnia Teatro C. Goldoni che ha da poco celebrato il centenario della propria attività ricevendo prestigiosi riconoscimenti.
Negli ultimi anni, si è rivelato un nutrito gruppo di artisti e Compagnie (Teatro Laboratorio Quartiere, Teatro della Valdoca, Societas Raffaello Sanzio, Francesco Mescolini, Maurizio Ferrini, Massimo Rocchi, Graziano Spinosi, Nuova Compagnia) che da Cesena spesso si sono affermati poi in campo nazionale e internazionale.
Per queste realtà teatrali, che solo in alcuni, ma consistenti casi, hanno scelto una dimensione professionistica, il Bonci è apparso sempre come “il Teatro”, lo spazio nel quale provare e provarsi; tuttavia, altri Teatri dalla Città sono stati sede più a lungo e organicamente di Compagnie locali: a cominciare dal Casino del Teatro , poi Ridotto, il cui “teatrino” dal 1879 ospitò sia la Società che l’Accademia Filodrammatica, per proseguire con il Teatro Masini, allestito già alla fine del Settecento nell’omonimo Palazzo, ora Mazzini, che diede spazio fino all’apertura del Comunale alla Società Filarmonica Cesenate presieduta dal marchese Alessandro Ghini, con le annuali Accademie.
E’ certamente più importante l’attività del Teatro Giardino: inaugurato nel 1874 come arena per spettacoli diurni, poi coperto, ha rappresentato per un lungo periodo (soprattutto dal 1880 al 1930, da quando è stato adibito quasi esclusivamente ad attività cinematografica) una alternativa al più glorioso Teatro Comunale. Se infatti questo rappresentava il luogo dello spettacolo “ufficiale” (opera o drammatica), l’altro era “luogo più modesto per spettacoli più popolari, meno importanti, meno dispendiosi”.
Nelle cronache del Teatro Giardino, tuttavia, se figurano prevalentemente varietà e avanspettacolo ( generi popolari che costituivano, per i costumi morigerati dell’epoca, il massimo della licenziosità), non mancano serate di prosa che portarono a Cesena, magari prima del Comunale, i grandi della scena, da Salvini a Zacconi, da Benini a Novelli.
A Cesena, dunque, sono stati storicamente attivi, anche contemporaneamente sebbene con programmazioni diversamente importanti, quattro Teatri (Comunale, Masini, Ridotto e Giardino, oltre ad altri spazi “occasionali”) e numerose Compagnie: se a questi affianchiamo quelli minori, soltanto per dimensione, costruiti in Comuni vicini (Cesenatico, Gambettola, Savignano, Longiano, Forlimpopoli, Mercato Saraceno, ecc.), risulta un dato storico chiarissimo: è esistito (e oggi è ricostituito) un sistema territoriale di Teatri civili la cui funzione, ribadita spesso dalla conformazione strutturale, è riqualificata oggi dalla propensione delle Amministrazioni pubbliche al restauro architettonico e culturale e dalla volontà di ritrovare l’antico rapporto tra teatro e pubblico.

 

A cura di Franco Pollini

Pubblicazioni

Pubblicazioni realizzate dal Teatro Bonci:

  • G. Azzaroni, F. Dell’Amore, Pier Giovanni Fabbri, Romano Pieri, A. Maraldi, (a cura di), Un palcoscenico per Cesena. Storia del Teatro Comunale, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1997.
  • F. Battaglia, M. Gradara, G. Conti, G. Foschi, Il Teatro Comunale “Bonci” e la Musica a Cesena, Cesena 1992.
  • D. Dell’Amore (a cura di), La scena variabile. Teatro e musica a Cesena dal Medioevo all’Ottocento, Comune di Cesena – Teatro Alessandro Bonci, Cesena 1995.
  • Immagini di teatro, Anni Ottanta a Cesena, fotografie di G. P. Senni, testi di F. Pollini, Cesena 1991.
  • F. Pollini (a cua di), Il teatro di Luigi Veronesi, Società editrice “Il Ponte Vecchio”, Cesena 1998.
  • F. Pollini (a cura di), Museo del Teatro, Cesena 1998.